Che piacciano o meno le sue canzoni, va riconosciuto che De André è stato per 40 anni uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi.
Dott.ssa Silvia Ferretti
Fabrizio de André avrebbe oggi 80 anni. E’ scomparso a 59 anni per un imperdonabile tumore ai polmoni e lo scorso anno è ricorso il ventesimo anniversario della sua morte.
Che piacciano o meno le sue canzoni, va riconosciuto che De André è stato per 40 anni uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi e penso di poter affermare con certezza che lo sia ancora oggi. Sì, perché sono certa che le musiche di De André sono conosciute (se non apprezzate) dalla maggior parte delle persone anche in tempi attuali, e che coloro che le apprezzano non siano soltanto “i più attempati” ma anche i giovani che, accanto ai nuovissimi generi musicali, hanno, almeno una volta, ascoltato La canzone dell’amore perduto. Tra l’altro, alcuni testi delle canzoni di De André sono state considerate dai critici vere e proprie poesie e di conseguenza sono state inserite nelle antologie e nei libri di testo degli studenti.
Una visione psicologica
Fabrizio, Faber, De André (così lo aveva soprannominato l’amico Paolo Villaggio per la sua predilezione per i pastelli della Faber Castell nonché per assonanza col nome), oltre ad essere stato il re dei cantautori, è stato, a mio avviso, un personaggio molto tormentato e di conseguenza affascinante ed interessante. Psicologicamente parlando, la sua grandezza è stata quella di creare un connubio perfetto tra l’emozionare e far riflettere su temi importanti. Lasciando da parte l’aspetto politico o quello religioso con cui possiamo essere o non essere d’accordo, c’è molto altro sul quale mi piace fare delle considerazioni: la sua voce calda e profonda ha cantato l’umanità e le sue fragilità, i suoi vizi e le sue risorse. Egli stesso è stato un personaggio che ha avuto una vita particolarmente sofferta, era un grande fumatore e bevitore, si è rovinato la salute distruggendo il suo corpo per dare vita alla sua poesia forse anche deplorando la morte che per sortilegio sfidava spudoratamente. Usando il linguaggio battente dell’ironia, mai retorico e per nulla sentimentale, utilizzando e omaggiando anche più dialetti (il suo genovese, ma anche il sardo, il napoletano), le sue ballate raccontano i lati più oscuri della psiche umana, i suoi personaggi che ne fanno da protagonisti possono essere considerati veri e propri “casi clinici” per descrivere una patologia o il superamento di essa.
I personaggi
Pensiamo a La ballata dell’amore cieco che narra la storia di “un uomo onesto, un uomo probo” che si innamora perdutamente della classica femme fatale che non lo ricambia ma lo costringe a uccidere la madre e a uccidersi come prova d’amore…e a questo punto De André prosegue cantando la fragilità della cattiveria di questa donna che viene presa da sgomento nel momento in cui vede l’uomo morire felice per amore, mentre a lei non rimane nulla.
Possiamo portare l’esempio di Michè, un uomo che viene ritrovato impiccato nella sua cella, del quale De André, con le note morbide della sua ballata ci racconta la triste storia: Michè ha ucciso colui che voleva portargli via la sua Marì, e viene condannato a vent’anni di prigione. Questi venti anni però, sono troppi per vivere lontano da lei, così tanti da spingerlo al suicidio di cui nessuno ha pietà.
Andrea è il protagonista dell’anonima canzone che ha come sfondo la Prima Guerra Mondiale. “Occhi di bosco, contadino del regno, profilo francese” è il suo amante ed è un uomo. Disperato per aver perso l’amore, Andrea in finale, di fronte a un pozzo profondo si decide per un gesto estremo: “Mi basta che sia più profondo di me”.
Impossibile non citare i personaggi dell’album ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgard Lee Master, come ad esempio Un chimico, un uomo che rifugge dai sentimenti per trovare consolazione nell’unica cosa che è in grado di capire e padroneggiare con sicurezza: gli elementi. Eppure, dopo aver trascorso una vita a evitare timidamente primavere e donne da ricordare, nell’avventatezza di fondere due elementi incompatibili tra loro muore anche lui “proprio come gli idioti che muoion d’amore“.
Altri personaggi interessanti sono dei bersagli della cattiveria, Un matto, deriso dagli abitanti della città, e Un giudice, un nano che riesce a salire i gradini della scala sociale fino a vendicarsi di coloro che in passato lo avevano deriso.
Empatia e accoglienza
Ogni storia che racconta nelle sue canzoni sembra quasi essere un trattato di psicologia sulla personalità dell’uomo in cui De André assume un atteggiamento assolutamente empatico, i suoi personaggi sono protagonisti assoluti, è come se parlassero loro stessi e raccontassero le loro storie scomode. Così come un pittore cattura un’immagine per realizzarne una perfetta rappresentazione, così De André afferra l’essenza di concetti e immagini e, con la potenza della musica e delle parole, ne trasmette la magia con passione e dedizione. De André riesce ad essere empatico con tutti, non si pone come giudice severo e non condanna, ma accoglie i suoi personaggi chiunque essi siano: prostitute (Bocca di rosa, La canzone di Marinella, Via del Campo), folli che mettono bombe (Il bombarolo), persone che (giustamente) vogliono cambiare la propria identità sessuale perché transessuali (Princesa), tossicodipendenti, “gli invisibili” di Cose che dimentico, donne addolorate di fronte ai propri figli crocifissi (Tre madri) …
La morte nei testi di De Andrè
Come possiamo notare, la morte è un tema molto presente nei testi di De André che sembra quasi volerne esorcizzare l’angoscia. Il cantautore non solo ha dedicato all’argomento svariate canzoni ma anche un intero album dal titolo Tutti morimmo a stento.
De André stesso in una intervista aveva dichiarato di essere terrorizzato dalla morte, in particolare da quella dei suoi cari. Tra l’altro questo tema, che è purtroppo sempre attuale, oggi lo è ancor di più, visto il periodo che stiamo vivendo con l’emergenza sanitaria del COVID-19.
La ballata degli impiccati, La ballata del Michè, La ballata dell’amore cieco, La ballata dell’eroe, Morire per delle idee, Preghiera in gennaio sono solo alcune della canzoni di De André in cui si parla di morte. Tutte affrontano il tema da un’angolazione diversa, tutte fanno diverse considerazioni, ma tutte esprimono in fondo quello che viene detto esplicitamente nell’ultima strofa de Il testamento:
cari fratelli dell’altra sponda
cantammo in coro già sulla terra
amammo tutti l’identica donna
partimmo in mille per la stessa guerra
questo ricordo non vi consoli
quando si muore si muore si muore soli
questo ricordo non vi consoli
quando si muore si muore soli.
Accanto al tema della morte naturalmente c’è anche quello del lutto e del distacco, come ad esempio nella bellissima Preghiera in gennaio dedicata alla scomparsa del suo amico cantautore Luigi Tenco.
C’è da dire, comunque che, a parte Volta la carta tratta da una antica rima popolare genovese che “finisce in gloria”, la maggior parte delle canzoni di Fabrizio De André non hanno un lieto fine, hanno un triste sapore malinconico che le contraddistingue e che ricorda molto il temperamento e la vita del cantautore stesso. Questa tristezza di fondo, questa nostalgia, questo dolore, a mio avviso, sono la forza delle canzoni di De André, ciò che ne determina il fascino di chi ha cantato tutte le sfaccettature della vita umana includendo i momenti felici e quelli drammatici, ma dando sempre un grande risalto al mondo interiore e alle emozioni delle persone.
In questo periodo in cui siamo fermi a causa dell’emergenza sanitaria, abbiamo forse, seppur forzatamente, più spazio e più tempo per noi. Per chi non lo ha mai fatto, forse potrebbe essere un’occasione per ascoltare le musiche e i testi di Fabrizio De André, potrebbe essere una piacevole scoperta (o forse no), ma credo possa valere la pena provare. Per chi già le conosce, potrebbe essere l’occasione per ri-ascoltare le canzoni, attraverso le quali si scoprono ogni volta elementi nuovi e si colgono nuove emozioni e sfumature. Sono certa che, anche se scritte parecchi anni fa, vi si ritroverà tanto di attuale, al punto da sembrare scritte in tempi odierni.
E chissà – a me piace comunque pensarlo – forse, seppur in tarda età, se Fabrizio De André fosse ancora vivo, avrebbe dedicato qualche verso anche a questo virus…
“Se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”
(La città vecchia)